Ci sono momenti nella vita in cui il buio che ti circonda sembra senza fine… Ci sono momenti in cui il labirinto in cui sei finito sembra senza vie d’uscita… Ci sono momenti in cui il peso degli anni e dei problemi sembra sul punto di schiacciarti definitivamente…Ci sono momenti in cui il peso degli anni e dei problemi sembra sul punto di
Quando nei primi mesi del 1982 ho iniziato a fare il giornalista sportivo, mai avrei pensato un giorno di scrivere un articolo parlando di mio figlio in chiave sportiva. Invece, oggi sono qui, a notte fonda, a gettare su un foglio bianco parole scritte con l’inchiostro dei sentimenti. Sì, perché oggi mio figlio mi ha regalato un secondo 14 maggio indimenticabile, senza la Lazio di mezzo. Scrivo io di Francesco, così come ognuno dei genitori dei ragazzi dell’Olimpia potrebbe scrivere le stesse cose del proprio figlio, perché il successo di oggi di questa squadra di quartiere che ha abbattuto il colosso Eurobasket (la Juventus del basket romano), non è il successo di un singolo, ma di un gruppo straordinario allenato da un team di allenatori che hanno dimostrato di essere per prima cosa dei grandi educatori, dei maestri di sport e di vita. Mai una sceneggiata, mai un tecnico in tutta la stagione e un costante impegno nell’allenare i ragazzi ma anche… i genitori. Già, perché in troppi casi siamo proprio noi quelli più difficili da allenare, quelli da tenere a bada, quelli che hanno sempre qualcosa da ridire e che rischiano di rovinare quanto di buono si costruisce in palestra in ore e ore di allenamento. Non a caso, un mio amico allenatore (scherzando ma non troppo) mi ripete spesso che la squadra migliore da allenare è quella composta da soli ragazzi orfani. E Davide, Alessio, Raffaele, Paolo e tutti gli altri (compreso Peppe, costretto ad allontanarsi quest’anno per motivi di lavoro, ma sempre presente con lo spirito e con l’anima), sono riusciti in questa impresa nell’impresa. Non solo perché hanno messo in scena una riedizione in chiave basket del miracolo compiuto dal Leicester, ma perché alla fine hanno vinto dentro e fuori dal rettangolo di gioco.
Perché, lo ripeto, questa non è la squadra di un singolo, ma di 12-14 ragazzi che hanno dato tutto e hanno ripagato con l’impegno e il sacrificio la fiducia del loro allenatore. E non è una frase fatta. Volete un esempio? Ultimi secondi del terzo quarto, Davide Pistorio chiama un timeout e disegna uno schema: per Greco? Per Corriere? Per Becchetti? Per Mattiangeli? Per De Santis? Per “schizzo”? Per Cenciarelli? Per Menei o Sabelli?
No, per Lorenzo Grasso detto “Lollo”, uno dei 2004 del gruppo che quando Davide gli ha detto di entrare nella mischia lo ha guardato come per dire “ma che dici a me? Proprio a me???”… “Lollo” è il simbolo di questa vittoria, perché ha giocato meno di un minuto in questa partita, ma uscito dal timeout ha eseguito gli ordini: si è smarcato sulla sinistra vicino alla linea dei 3 punti, gli avversari hanno raddoppiato su altri sottovalutandolo e concedendogli un metro di spazio e, quando la palla gli è arrivata come da schema disegnato sulla lavagnetta, ha tirato e ha fatto canestro dall’angolo, per essere poi sommerso dall’abbraccio dei compagni in campo e di quelli in panchina. Questo significa essere una squadra, tutto questo è stata quest’anno l’Olimpia San Venanzio. Un gruppo di ragazzi che in altre squadre avrebbero potuto fare le primedonne giocando 35 minuti e segnando 20 punti a partita, invece hanno accettato di mettersi al servizio della causa, sacrificando minuti e punti per il bene comune. E, a turno, sono stati tutti decisivi. Anche chi come Francesco Carboni, Luca Di Marzio, Michele Messina, Cristiano Morgia e Andrea Flamini hanno avuto poco spazio, ma sono stati sempre presenti in palestra e, con genitori al seguito, hanno girato con noi tutta la regione sacrificando sabati e domeniche, magari solo per giocare pochi minuti. Senza mai un fiato, senza un lamento, senza nessuna processione da parte dei genitori nello spogliatoio dell’allenatore per lamentarsi perché i propri figli avevano poco spazio.
Perché tutti sono trattati allo stesso modo e i minuti in campo si guadagnano con il sudore in palestra e facendo gruppo quando si sta in panchina. Questo significa essere una squadra e giocare da squadra. Per questo abbiamo vinto. Perché batterci è stato difficile per tutti, anche per l’Eurobasket che ci aveva superato una volta di 5 e una volta solo di un punto nella prima fase. Perché puoi fermarne uno dei nostri ragazzi, ma ne spunta un altro. Uno è in giornata storta al tiro? Ci pensa un altro a segnare i punti che servono. E’ stato così per tutto l’anno e l’impressione a titolo vinto è che questo non sia un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza. Perché qui non ci sono soldi, ma un progetto vero e tanta voglia di realizzarlo, da parte di tutti: dagli allenatori ai genitori, per finire chiaramente con i ragazzi, che poi sono i veri protagonisti. Per questo la gioia di oggi va custodita gelosamente, conservata nel cofanetto dei ricordi in cui si conservano le cose preziose della vita, ma va messa da parte, insieme a coppa e medaglie. Perché anche se questa giornata resterà per sempre impressa nella nostra memoria e i nostri ragazzi le immagini di questa impresa se le ricorderanno anche tra 30-40 anni, quando racconteranno ad un figlio di quel magico 14 maggio del 2016, la partita più bella da vincere è e sarà sempre la prossima. E per riuscirci, bisognerà raddoppiare e triplicare gli sforzi, lavorare e sudare ancora di più in palestra. Questo è lo sport, questa è la vita …
“Chi possiede sogni, possiede il futuro”, scriveva Naghib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura. E i nostri ragazzi in questo magico 14 maggio hanno realizzato un sogno, ma ne hanno ancora tanti di sogni da realizzare. Nello sport e nella vita. E per capirlo, basta essere attenti e guardare nei loro occhi, perché “il futuro è negli occhi e nel sorriso di un figlio”.